mercoledì 22 aprile 2015

venerdì 3 aprile 2015

La campagna per la sobrietà di Xi Jinping colpisce i "lussi occidentali"

Boiardi a scuola guida

La campagna per la sobrietà e contro la corruzione che da più di due anni scuote la Cina continua a offrire sorprese: calano i consumi del lusso, anche se aumentano quelli di biancheria intima firmata, diminuisce il consumo di vini francesi e calano a capofitto i profitti dei casinò di Macao.


I funzionari devono mostrarsi sobri, evitare ristoranti costosi e comportamenti troppo sfarzosi. Come, per esempio, la pratica fino a ieri diffusissima di avere autista e l’equivalente cinese delle auto blu. Così, ecco che i quadri di Partito, abituati a essere scarrozzati come si confaceva a uomini del loro rango, oggi debbono imparare ad andare in giro da sé. Ovvero, per molti di loro significa imparare a guidare e prendere la patente, anche se in alcuni casi hanno già oltrepassato la cinquantina e pensavano di non aver bisogno di superare esami di guida.

Secondo l’agenzia di stampa Xinhua, i funzionari di Partito «abituati a dare ordini, non a prenderne», stentano a seguire le istruzioni impartite a scuola guida, e vengono bocciati a ripetizione. Come quel funzionario identificato solo con il cognome, Zhang, di 52 anni, bocciato già dieci volte pur avendo cambiato istruttore a più riprese, che più va avanti più «perde la pazienza», ritrovandosi dunque con sempre meno prospettive di superare l’esame e con quella, ancora più impensabile, di vedersi costretto ad utilizzare i sovraffollati trasporti pubblici.

In parte le difficoltà dei funzionari scarrozzati fino a ieri dalle auto blu sono da attribuirsi al fatto che gli esami di guida cinesi sono particolarmente complessi con un minimo di 78 ore di guida, varie ore di elementi di meccanica di base, e un costo che si aggira intorno ai 1500 euro, decisamente alto per il Paese.

In alcuni casi funzionari disperati dalle difficoltà che incontrano per ottenere la patente vanno dove le cose sono più semplici: a Hong Kong, per esempio, dove la patente può essere ottenuta con meno ore di istruzione, o in Corea del Sud, dove i test di guida sono più facili. Una volta ottenuta una patente internazionale, basta una formalità per convertirla in patente cinese.

Stretta del governo sul golf in Cina

Elitario, borghese, ma soprattutto «troppo occidentale. La Cina ha un problema: gli ex compagni vanno pazzi per il golf. L’incubo dei leader rossi è che i figli dei rivoluzionari maoisti, assaporato il benessere, abbraccino ora anche ozi e vizi importati da Europa e Usa. Troppi campi, troppi country club e troppi weekend in resort di lusso affacciati sul green.

Dopo la stretta contro «lussi e stravaganze», la repressione del presidente Xi Jinping cala così sul passatempo preferito dei “piccoli principi” che ce l’hanno fatta. Il governo ha chiuso 66 «campi illegali» seminati in tutto il Paese, in particolare negli eleganti sobborghi delle metropoli.


Ufficialmente lo stop al golf si giustifica con la «mancanza della necessaria autorizzazione». Gli stessi media di Stato rivelano che la scomunica del gioco simbolo del capitalismo punta invece a colpire «funzionari esterofili, nuovi milionari sempre meno sensibili alla disciplina del partito e speculatori immobiliari».

Nel mirino, anche la forbice sempre più ampia che divide i pochi ricchi dai molti poveri.

Con il golf, approdato in Cina trent’anni fa, il divario sociale, dalle città, irrompe nelle campagne. Bruciare distese di grano e storiche risaie per far posto a un green, diventa il certificato dell’addio a Libretto rosso e Grande Timoniere. Tutto si può infatti dire del golf, tranne che in Cina sia «patriottico».

Vale per il tennis e pure per il calcio, importato ora a furor di autorità, ma con i bastoni si è davvero esagerato. In dieci anni i campi sono passati da 200 a 727. L’isola di Hainan si è trasformata nel paradiso asiatico dei golfisti, sacrificando un’intatta foresta subtropicale. A Shenzhen è sorto il più grande centro golfistico del mondo: 12 percorsi a 18 buche su un’area di 20 chilometri quadrati. Scandalo politicamente imbarazzante, in pieno riflusso verso sobrietà post-proletaria e tradizione.

Così in Cina nessun nuovo campo potrà essere costruito e centinaia vedono lo spettro dello smantellamento. Un’impresa. Nel Guangdong ce ne sono 97, più che in Irlanda. Attorno a Pechino sono 70, il doppio che a Londra, mentre altri 51 hanno aperto solo nello Shandong.

Un disastro anche per l’ambiente: per vedersi approvare il progetto di un campo standard, gli investitori privati dovevano promettere ai compagni dirigenti di occupare oltre 67 ettari, innaffiati da almeno 4 mila metri cubi d’acqua al giorno. Il boom ha proceduto cosi a colpi di truffe: otto campi da golf su dieci figurano come «centri sportivi», «parchi attrezzati», o «cinture verdi».

Nel 2014 undicimila ettari di coltivazioni sono stati convertiti illegalmente in percorsi con le buche, assediati da ville con piscina e hotel a cinque stelle abusivi. Nello Yunnan una società privata ha occupato 450 ettari di terrazzamenti e al posto di té verde e monasteri tutelati dall’Unesco sono spuntati tre campi da golf e una pista per voli low cost.

Dalla mazza alla mazzetta, con il pericolo che «lo sport degli yankee» inneschi l’implosione del regime. Meglio così alleggerire la pallina: resti pure bianca, ma torni al glorioso, più presentabile ping-pong.